Concorso “La regina degli scacchi”
In un anno che ha visto una notevole crescita della popolarità degli scacchi a livello mondiale, un evento mediatico ha ulteriormente contribuito a riportare il nobil giuoco nei mezzi di comunicazione di massa. Si tratta de “La regina degli scacchi” (“The Queen’s Gambit” nell’originale), miniserie televisiva basata sull’omonimo romanzo di Walter Tevis, pubblicato nel 1983. La miniserie (sette episodi della durata media di un’ora ciascuno), trasmessa dalla piattaforma Netflix, ha avuto un immediato successo di visualizzazioni e recensioni, anche e forse soprattutto da parte dei non “esperti” del gioco. Per questo motivo Scacchierando vuole dare la possibilità ai propri lettori di contribuire alla fruizione di quest’opera mediante la possibilità di scrivere una recensione della miniserie, che sia opera di chi probabilmente non sarà proprio “esperto” (nel senso rigoroso del termine, come lo potrebbe essere un giocatore professionista), ma che sarà sicuramente un vero appassionato del gioco.
Un vero e proprio concorso dunque per la “miglior” recensione. Il vincitore verrà premiato con un buono-acquisto del valore di 100,00 € spendibile presso il negozio “Le Due Torri” di Bologna.
Ci sono naturalmente delle regole da seguire e le andiamo ad elencare:
- la recensione dev’essere originale, mai comparsa prima sul web o sulla stampa;
- la recensione non può fare riferimento, più o meno palese, ad altre recensioni;
- la recensione NON deve contenere “spoiler” troppo evidenti, abbiate rispetto per chi la serie la deve ancora vedere;
- il testo dovrebbe avere la lunghezza media degli articoli che compaiono su Scacchierando, orientativamente 25-30 righe per 60 battute, ma di certo non si può essere troppo rigidi su questo, e sforamenti in più o in meno saranno consentiti; comunque non scrivete una recensione troppo lunga perché non la leggeremo, mentre una troppo corta va bene per un commento, non per un concorso di recensioni;
- è possibile allegare al testo alcune posizioni scacchistiche tratte dalla serie; per quanto riguarda le immagini tratte dalla serie, ne aggiungeremo noi un paio per recensione.
La scadenza per inviare le recensioni è fissata per il 27 novembre 2020. La settimana successiva saranno pubblicate le recensioni giudicate particolarmente meritevoli; l’ultima ad essere pubblicata sarà anche quella riconosciuta come vincitrice del concorso.
La scelta delle migliori recensioni e di quella vincitrice del concorso è a insindacabile giudizio della Redazione di Scacchierando.
È possibile firmarsi con il proprio effettivo nome e cognome oppure con un nickname; in quest’ultimo caso il vincitore dovrà, a concorso terminato, palesarsi alla Redazione di Scacchierando (che eventualmente manterrà il più assoluto riserbo su esplicita richiesta del vincitore) in modo tale da potergli accreditare il buono di 100,00 €.
Le recensioni vanno spedite al seguente indirizzo:
info chiocciola scacchierando punto net
4 novembre 2020 - 10:33
Non temete, non partecipano solo critici cinematografici o letterari, giornalisti di professione, recensori sperimentati 🙂 Qui c’è la possibilità per il semplice e vero appassionato di scacchi di esprimere la sua sulla miniserie, ovviamente non attraverso un commento di poche righe ma attraverso uno scritto comunque non troppo impegnativo. Partecipate che il premio non è poi male 😉
5 novembre 2020 - 11:25
Tra l’altro è una serie osannata dalla critica USA, assolutamente da vedere anche in compagnia di una persona che non ha alcun interesse per gli scacchi.
5 novembre 2020 - 11:45
Leggevo anch’io, tra l’altro sembra sia molto apprezzata anche da chi non conosce gli scacchi, aspetto che non ci è facile valutare ma che è stato sicuramente un punto di grande attenzione per gli autori.
Su Rotten Tomatoes voto medio di 8 su 10 e 100% di approvazione!
Jennifer Shahade ha commentato che avrebbe potuto essere una serie ancora più fantastica se fosse stata incentrata su una scacchista reale, come Vera Menchik o Judit Polgar. Boh, o non l’ha vista davvero o non ci ha capito gran che…
8 novembre 2020 - 20:22
Ho partecipato con grande entusiasmo al concorso ma, in quanto reporter e avendo lavorato anche all’estero, devo fare una precisazione.
Una recensione non può essere scritta in appena 25/30 righe (praticamente mezza pagina word), non si tratterebbe infatti di una recensione ma di un semplice articolo.
Le recensioni, basta fare un giro sui principali siti di settore per rendersene conto, vanno dalle 70 alle 120 righe di solito.
Raramente scendono sotto le 70 righe e principalmente questo accade per un motivo specifico e cioè relativo ai limiti imposti dalla carta stampata.
Spero che la redazione nella valutazione degli elaborati proposti dai candidati non si soffermi semplicemente sulla lunghezza come metro di “scarto” ma piuttosto sul contenuto e sulla qualità della recensione.
Ringrazio la Redazione di Scacchierando per questa bellissima opportunità e un caro saluto a tutti!
8 novembre 2020 - 21:05
A parte che comunque di solito un articolo si propone sempre per caratteri e non per righe.
Questo perchè le righe dipendono dalla dimensione del testo.
Un testo più corposo chiaramente occupa uno spazio superiore, altresì un testo meno corposo occupa uno spazio inferiore, mentre a livello di caratteri si rimane invece invariati perchè appunto non sono dipendenti dalla grandezza del testo.
Questo in linea generale, senza nessuna polemica chiaramente. Perchè altrimenti si potrebbero generare giustamente dei problemi di valutazione da parte della redazione. Il più furbo userà un testo più piccolo e chiaramente sarà avvantaggiato, mentre con un limite espresso a caratteri potrà scrivere anche a “2” ma pur sempre il numero dei caratteri rimarrà invariato.
9 novembre 2020 - 17:41
Ciao leovil. Mentre ho compreso (e in parte condivido) il tuo primo commento, questo secondo mi risulta meno comprensibile. C’è scritto nel testo “orientativamente 25-30 righe per 60 battute”, non c’è nessun riferimento alle sole righe. In ogni caso se qualcuno va oltre le 2000 battute complessive, non c’è nulla di male, anzi. Il riferimento “orientativo” è stato scritto per evitare “recensioni-fiume” come certe che mi è capitato di leggere in rete. E’ un concorso per appassionati scacchisti, non per aspiranti scrittori o recensori.
Ho compreso che non c’era nessun intento polemico da parte tua e ti ho risposto con lo stesso intento 😉
9 novembre 2020 - 18:18
Comprendo il pericolo delle “recensioni fiume” ma 2000 battute complessive sono praticamente una cartella word.
Mi sembra un po’ poco! Non vorrei che si fosse confuso l’articolo con la recensione perchè parliamo di cose differenti.
Scrivere un articolo di 2000 battute ha un senso, per una recensione invece è davvero pochissimo.
Per scrupolo ieri sono andato a verificare sui principali siti di cinema e Serie TV e la recensione più corta aveva sulle 3800 battute.
Non è ben chiaro (ma magari è un’opinione solamente mia) se dobbiamo scrivere una recensione o un articolo.
Perchè in base a quello che ho capito, personalmente ho scritto una recensione (ripeto con grande entusiasmo, infatti ho inviato l’elaborato tra i primi), ma non può (e non deve) corrispondere alla lunghezza orientativa richiesta dal bando, altrimenti sarebbe un articolo.
Comunque vi ringrazio molto sia per la risposta che per l’opportunità che state dando a tutti noi appassionati! 🙂
10 novembre 2020 - 11:50
Non vedo come sia possibile distinguere tra recensione e articolo in base alla lunghezza del testo, è già difficile farlo in base ai contenuti.
Più verosimilmente lo sarà in base allo scopo.
Chi ha il dono della sintesi può fare allo stesso modo recensioni/articoli abbastanza corti, come pure lunghissime prose su un singolo dettaglio di un film, se possiede anche il talento.
10 novembre 2020 - 12:17
Sia ben chiaro, il compito di giudizio è molto difficile indipendentemente da chi scrive e da quanto scrive.
Tuttavia l’obiettivo del mio intervento, rivolto alla redazione, è piuttosto chiaro
Non si dovrebbero penalizzare coloro che hanno scritto di più poichè nelle recensioni è perfettamente normale produrre dei testi “lunghi”.
Logico che una recensione di 8 pagine non possa essere presa in considerazione in questa sede però una recensione di 2 o 3 pagine mi sembra del tutto normale e come spiegavo l’altro giorno in linea anche con tutte le altre recensioni presenti sul web.
10 novembre 2020 - 18:57
Nel frattempo “The Queen’s Gambit” è la serie TV Netflix più popolare per la seconda settimana consecutiva!
Addirittura per The Independent (UK) si tratta di una delle migliori serie TV di Netflix di sempre!
12 novembre 2020 - 19:00
Ho letto anch’io.
Infatti me ne ha parlato (molto bene) tutta gente che non frequenta gli scacchi, meravigliata che proprio io non lo avessi visto.
12 novembre 2020 - 19:56
Sono l’unico che ha trovato questa serie noiosa e scadente? Una sequela ininterrotta di cliché cinematografici, a cominciare dall’immancabile carrellata a precedere nel corridoio della scuola, con le compagne che guardano la protagonista come uno strano animale, culminante nell’ovvia spallata nella schiena quando Beth apre l’armadietto. Non sono stato in grado neanche di terminare la serie, ho dovuto fermarmi tre puntate prima. Chi è la firma dell’Indipendent?
12 novembre 2020 - 20:47
Roisin O’Connor, curiosamente “The Independent’s Music Correspondent”.
https://www.independent.co.uk/author/roisin-oconnor
L’articolo è qui:
shorturl.at/nwV48
(gli shorturl sfortunatamente non vengono autocliccabili, va copiaincollato nella barra degli indirizzi)
12 novembre 2020 - 22:20
Quindi è un critico musicale? Del resto, se si pensa a cosa sono oggi i critici cinematografici che vanno per la maggiore sul web, non fa molta differenza. Ormai si formano leggendo una quindicina di libri e guardando solo il cinema contemporaneo e le serie tv, stanno ore sui social e hanno la stanza da letto piena di poster e di bambolotti…
Se volete fare un confronto istruttivo sul piano cinematografico ed estetico, guardate “Il colore dei soldi”, basato su un altro romanzo di Tevis, un film che tra l’altro non è certo fra i migliori di Scorsese, eppure già risaltano evidenti le differenze in quanto a qualità della regia e sceneggiatura, soprattutto, ma anche di fotografia (del grande Ballhaus!). D’accordo, se qualcuno se lo sta chiedendo, sì, mi piace vincere facile. Se si guarda alla carriera di Scott Frank, questi non si è mai distinto per un particolare talento. I due film che ha girato sono inguardabili, mentre fra le molte sceneggiature le uniche valide sono Minority Report, ma con la supervisione di Spielberg, e The Interpreter, in cui però era co-sceneggiatore insieme a un grande come Steven Zaillian. Insomma, non è proprio una cima, e di meglio non ci si poteva aspettare. L’unica scusante che posso consentire alla serie in oggetto è che si tratta appunto di una serie, quindi è per forza di cose inferiore a un buon film. In effetti, non conosco una serie che possa stare all’altezza di un film fatto bene – con la sola eccezione della terza stagione di Twin Peaks (che però io non considero una serie, ma un film lungo diciotto ore, più o meno alla di Heimat o di Satantango).
12 novembre 2020 - 22:53
Posso unicamente suggerire di farti forza, finire di guardare la serie e poi mandarci una recensione 🙂
PS: sono sicuro tu lo sappia, ma per chi non fosse pratico la frase “fra le molte sceneggiature le uniche valide sono Minority Report, ma con la supervisione di Spielberg” deve essere completata da un “e che peraltro aveva alla base il racconto di Philip K. Dick” 😛
13 novembre 2020 - 00:52
Hai ragione, ma c’è un problema: più è grande il romanzo, più viene rovinato nella trasposizione. Lo sapeva bene Hitchcock, il quale, come riferisce a Truffaut nel famoso libro intervista (“Il cinema secondo Hitchcock”), non voleva neanche provarci perché un capolavoro non può che uscirne umiliato trasponendolo in un’altra forma artistica. Lo stesso diceva Fellini a Citati riguardo l’adattamento del romanzo di Kafka “America”. Comunque il caso di Minority Report è diverso perché è un racconto abbastanza breve, non un romanzo, perciò è stato più facile da adattare prendendosi molte libertà. Io di adattamenti di grandi romanzi molto ben fatti ne ho trovati pochissimi: “L’età dell’innocenza” di Scorsese, “Tess” di Polanski, “Ritratto di signora” di Campion, “Le relazioni pericolose” di Frears, “Il Gattopardo” di Visconti. Tutti gli altri mi hanno sempre deluso, persino “Il processo” del supremo Orson Welles.
13 novembre 2020 - 01:04
Non sarà solo quella “carrellata” ad averti impedito di finire la serie! Se poi il paragone è con Scorsese… Povero Frank!
Sono d’accordo su alcuni aspetti ma, ed è ovviamente una percezione soggettiva, non sul risultato finale. Provo a spiegarmi meglio, anche se devo stare attento a non spoilerare e se, sicuramente, non ho una cultura cinematografica così vasta.
Di difetti ce ne sono, sia dal punto di vista fiction / regia che dal punto di vista scacchistico…Se vogliamo essere scacchisti duri e puri: che si parli a partita in corso (o forse in USA si usava farlo all’epoca?), che in torneo si sbeffeggi l’avversario con frasi come “Lo vedi adesso?”, che la sospensione della partita venga decisa improvvisamente da uno dei due giocatori (Aggiorno!), che le proposte di patta precedano l’abbandono senza mosse nel mezzo… Ci ho provato! E che le patte praticamente non esistano… Insomma… Ci sarebbe almeno un altro aspetto ma implicherebbe spoilerare.
Rispetto ad altre fiction la serie ha un taglio abbastanza cinematografico e, oltre a movimenti di camera ampiamente utilizzati, ci sono alcune inquadrature abbastanza sperimentali (che non mi sono piaciute). La regia si divide tra il tratteggio di Beth, della sua formazione, e la resa dell’atmosfera scacchistica, a volte perdendo equilibrio. Nel primo aspetto ottiene qualche risultato (molto cercato nell’adattare il romanzo) ma mostra incertezze sulle interazioni della ragazza, il filo che lega il suo percorso di crescita ed affettivo appare a volte debole. Così la maturazione di Beth, delle sue relazioni, l’incastro meno doloroso con la sua memoria, avviene quasi perché così doveva essere più che per percorso della fiction, senza una adeguata proporzione con il nodo della sua storia di bambina, più volte riproposto e reso così enormemente drammatico da non riuscire a creare abbastanza energia per scioglierlo verosimilmente. Ci riesce quasi, e quel quasi è un vero peccato.
C’è comunque una interessante drammaticità nella scacchiera come rifugio e come baluardo, il mondo poi si sgretolerebbe egualmente ma… Meriti della storia (e quindi del romanzo di Tevis).
Meglio guardare allora gli scacchi, che, ad onta dei difettucci accennati, vengono resi in modo interessante: che la serie piaccia molto ai non scacchisti e che gli scacchi ne escano come un gioco affascinante non è un risultato da poco! Sicuramente a questo aspetto sono stati dedicati tempi ed energie importanti. Le mosse si susseguono molto rapidamente ma, in qualche modo, si riesce a dare la percezione di lunghe analisi, di partite che durano ore. L’ambientazione d’epoca è curata, bella, e non mi è dispiaciuta la percezione di una passione vera per gli scacchi nell’Unione Sovietica. Scacchi seguiti alla radio, giocati all’aperto… Era così.
TOVARISHCH BORGOV!
Agli occhi dello spettatore la carriera scacchistica di Beth prende pian piano il sopravvento, anche se l’intenzione era probabilmente quella di renderla parallela, se non subordinata, al percorso della ragazza. Aiuta molto che la protagonista sia interpretata con bravura, tra occhi che catturano e un certo magnetismo. Anche molte altre interpretazioni sono obiettivamente valide (e qualche merito il regista deve pur averlo). Diciamo che la storia c’è, la sceneggiatura quasi, ambientazione e fotografia sono curate, la resa emotiva ha avuto solo sprazzi, quella scacchistica ha diversi pregi.
Tutte considerazioni successive, almeno per me, mentre la guardi c’è quella sintesi interna che te la fa seguire con piacere o meno: a me “La regina degli scacchi” è piaciuta molto.
Mi associo al suggerimento di Ale: finisci di vederla e manda una recensione!
13 novembre 2020 - 15:46
Non è solo quella carrellata, ovviamente, sennò sarei matto. Come dicevo, è “una sequela ininterrotta di cliché cinematografici”. Domani ti rispondo più estesamente, e magari provo a vedere le altre puntate della serie e a dare una scorsa a quelle già viste per rinfrescarmi la memoria.
14 novembre 2020 - 18:42
Ci ho provato, ma non ce la posso proprio fare. Mi sono messo a guardare il quinto episodio, ma ho dovuto gettare la spugna. Tanto non credo che la qualità subisca di colpo un’impennata, quindi posso basarmi sulle prime quattro puntate. Non voglio dire che sia talmente orribile, il problema è che devo anche lavorare e il tempo libero che mi resta preferisco dedicarlo a quello che mi piace. Perciò sarò rapido e rozzo anche qui.
I difetti nella rappresentazione degli scacchi non sono un problema, per me, ed è comunque lodevole l’impegno profuso per darne un’immagine più accurata del solito. In fondo si tratta di pochi peccatucci veniali, peraltro probabilmente voluti per motivi di drammatizzazione e spettacolo (come ha fatto Nolan tappezzando le pareti della stazione rotante di “Interstellar” con finestre panoramiche, evidentemente assurdo – con gli astronauti che si stupiscono di avere la nausea! – ma necessario per ragioni estetiche e spettacolari). Lo stesso non si può dire di Edward Zwick con “Pawn Sacrifice”, in cui vediamo Fischer adolescente riprodurre da una rivista sovietica una partita che comincia con 1.h4 h5: questa è pura sciatteria, soprattutto nell’era di Internet e per un film che vuole ritrarre la vita di uno scacchista.
Non mi viene in mente nessuna inquadratura sperimentale negli episodi che ho visto io (anche perché, oramai, sperimentare qualche novità con il linguaggio del cinema è pressoché impossibile, ed è inoltre lontanissimo dai desideri di qualsiasi produttore di una serie tv: sperimentare vuol dire rischiare e ai produttori questa idea non piace affatto). Ma comunque non è un obbligo sperimentare e non è di per sé garanzia di alta qualità, tante volte si tratta solo di inconcludente stravaganza. Il problema non sta nell’uso di movimenti di macchina tipici – una necessità impossibile da eludere, d’altronde, perché in qualche modo bisogna pur girarla una scena. Sta invece nella composizione complessiva della scena: movimenti di macchina, inquadratura (angolazione, inclinazione, piano o campo, composizione plastica, cromatica e luministica del quadro), montaggio, eccetera. Tutto concorre al significato e al valore complessivo della scena. Quindi si può anche non sperimentare con i movimenti di macchina o con null’altro, pur riuscendo, con mezzi tradizionali, a conferire potenza espressiva alla scena con una sapiente combinazione di tutti gli elementi necessari. Per fare un esempio, nella scena di “Psycho” in cui Marion e Norman conversano nel salotto non vi è alcuna sperimentazione: lei viene inquadrata frontalmente e in piano (cioè con mdp parallela al pavimento), tutte le linee sono ben squadrate, il soggetto non è al centro ma è come se lo fosse perché si trova all’interno di un quadro nel quadro, delimitato dal margine sinistro e dalla tenda a destra e ciò incrementa l’effetto di stabilità, le ombre sono poche e delicate, la luce è uniforme, tutto il quadro è pulito, neutro, distensivo; lui viene inquadrato invece dal basso e di tre quarti, quasi di profilo, sullo sfondo dispiegano le ali uccelli predaci imbalsamati, le ombre sono più nette e più dense, il soggetto campeggia al centro del quadro ma la postura è inclinata in avanti, come un aquila pronta a gettarsi sulla preda. Ogni singolo elemento di questa scena, dal forte contrasto fra le inquadrature alla conformazione delle ombre, è precisamente calcolato per creare una suggestione psicologica intensa sullo spettatore e per esprimere una serie di significati che poi verranno sviluppati ulteriormente nel prosieguo del film. Si può quasi dire che in questa scena è già racchiuso l’intero film (considerando anche il dialogo). Tutti i significati e le informazioni che Hitchcock è riuscito a inzeppare in un solo minuto, un regista mediocre te li scodella in tre ore. Questa densità d’espressione non l’ho riscontrata in nessuna scena dei quattro episodi che ho visto della serie di Frank. Quando non riesci a trovare questa densità (in un modo calcolatissimo come Hitchcock o Bresson o Bergman – e non ti descrivo la scena di “Sussurri e grida” con Ullmann e Josephson davanti allo specchio ché è roba su cui si può scrivere un intero libro! – o in un modo più spontaneo come Truffaut, o persino improvvisato come Fellini con “Otto e mezzo”), allora stai usando il mezzo cinematografico al minimo del suo potere espressivo; e se non riesci nemmeno a trovare un’idea personale per rappresentare una scena, ma ti affidi semplicemente ai precetti del manuale, allora sei nel campo dei luoghi comuni e dei cliché. La scena nel corridoio che ho ricordato nel primo commento è uno di questi cliché: lo trovi in centinaia di film, sempre uguale, soprattutto nei cosiddetti teen drama (qui solitamente i bulli sono giocatori di football o cheerleeder) e nei film di supereroi (p.e. in Spiderman), e sono sempre girati in modi molto simili (la carrellata a precedere lungo il corridoio, in quella specie di camminata della vergogna, è uno dei più abusati, insieme alla spallata o a qualche sfregio imbarazzante che viene scoperto all’apertura dell’armadietto).
*********** SPOILER ************
Mi vengono in mente anche questi: il primo giorno all’orfanotrofio tira fuori dallo zaino un orsacchiotto (persino in certi film porno usano questo cliché: lì per rappresentare la fanciullezza ingenua, qui in aggiunta per sottolineare la povertà di Beth e il fatto che i suoi legami affettivi si riducono a quel pupazzo – ma la banalità dell’espediente è la stessa); al primo giorno di scuola, le compagne la squadrano e cinguettano sprezzanti sul suo stile d’abbigliamento; alla mensa viene rifiutata dalle compagne e deve sedersi da sola, ma ecco che trova una compagna sfigata come lei che l’accetta (dimmi che non hai visto una scena simile in una cinquantina di film); e così via.
Sono d’accordo con quello che tu dici riguardo il percorso di maturazione di Beth e le sue relazioni affettive. L’intenzione del regista credo fosse quella di far sembrare l’orfanotrofio un pessimo posto in cui crescere, ma dopotutto non sembra così male: sono tutti piuttosto gentili, lei è in buoni rapporti con le amiche, soprattutto una, scopre il gioco della sua vita e si fa un amico che glielo insegna, eccetera. In fin dei conti, solo due cose degne di nota accadono, cioè contrae due dipendenze: gli psicofarmaci e gli scacchi. I disagi dell’orfanotrofio, la vita che lì si conduce, l’assenza di affetti famigliari, e tutte le conseguenze psicologiche che dovrebbero scaturire da quell’ambiente e da quella condizione affettiva: non vediamo nulla di tutto questo. Il dolore di essere rimasta sola, di aver perduto e padre e madre, di non venire scelta per anni dalle coppie adottive, è tutto affidato a poche parole volanti. Ugualmente, le conseguenze della dipendenza dai farmaci non è mostrata mai, tranne una volta, quando se ne ingozza. Per il resto, impasticcarsi sembra una cosa innocua e davvero piacevole, vede la scacchiera sul soffitto e non vi sono rilevanti effetti collaterali (tranne la prima volta, quando barcolla un po’, ma basta abituarsi e il problema è risolto). La scoperta della sessualità è riassunta in tre scene tre, nei quattro episodi che ho visto, incastrate a forza nell’intreccio tanto per farci sapere che finanche una scacchista può avere qualche pulsione sessuale. Ma di nuovo, come per l’orfanotrofio e la sua condizione di orfana, non si riesce a trovare il minimo segno sullo sviluppo psicologico di Beth, la più labile traccia di quello che in teoria sarebbe un vero e proprio terremoto nella vita di un’adolescente. Un po’ di mestruazioni? Bazzecole! Un tampone e via! E tutto ricomincia come prima: scacchi, cancellini da pulire, pasticche da tracannare, notti allucinate. Sembra che Beth sia immune da tutto, orfanotrofio, sessualità, bullismo, eccettuati gli scacchi e i farmaci. Un po’ riduttiva, come psicologia. Anche le amicizie non hanno alcun riscontro psicologico in lei, e così pure i genitori adottivi. Lascia l’orfanotrofio e la sua unica amica, lei impassibile; il padre leva le tende, lei impassibile; la madre si alcolizza, lei impassibile. In generale, fino alla fine del quarto episodio, non esistono veri conflitti tra i personaggi, nessuno scossone drammatico in un film drammatico. La prima scossa (e forse l’unica?) sopraggiunge alla fine del quarto episodio con la morte della madre adottiva, ma purtroppo anche in questo caso la scena (ad essere pignoli, è una sequenza) è come disanimata, credo un po’ a causa di una fotografia leggermente patinata e slavata al tempo stesso; un po’ per una scenografia troppo levigata, o plastificata (la farmacia!), dando l’impressione di una riproduzione fittizia; un po’ a causa di un montaggio troppo spiccio; e la telefonata con il padre adottivo non fa che precipitare le cose, sembrando che parli con il suo commercialista. In fin dei conti, neppure la prima grande sconfitta, quella contro Borgov, induce un qualche scombussolamento. Impassibile anche in questo caso. Sì, sulla scacchiera fa qualche smorfia di disappunto, si agita un po’ sulla sedia, ma poi tutto finisce nel tempo di un amen, torna in camera e racconta la partita alla madre morta. Lungo quattro episodi sono rimasto in attesa della grande sconfitta che avrebbe fatto rimettere in discussione tutto ad una ragazza abituata a vincere contro chiunque con facilità. E invece niente, tranquilla come un Gabor Balogh qualsiasi abituato a perdere nove volte su dieci.
Mi accorgo di aver scritto troppo, sono andato a ruota libera. Non so se qualcuno avrà voglia di leggere questo verboso cibreo, conviene che mi fermi qui. Più o meno ho riferito, anche se troppo rapsodicamente, le impressioni principali, sebbene ci sia dell’altro da dire.
Aggiungo che a me non è piaciuta granché nemmeno l’interpretazione di Taylor-Joy, ma è meglio che non mi spinga oltre su questo terreno perché potrei venire linciato.
14 novembre 2020 - 20:30
Non solo ho letto (e con interesse) ma condivido. Di più, hai dato forma e sostanza a quello che accennavo tra la sproporzione di una sofferenza che avrebbe dovuto essere atroce (e che non appare, Beth sembra a volte un automa) e l’ insufficiente energia del suo superamento (parte della fiction che non hai visto e che credo ti indignerebbe!).
Durante la fiction ho pensato che si rappresentasse Beth come anaffettiva quale difesa rispetto a quanto aveva vissuto, nel contempo con il rifugio / baluardo della scacchiera. Forse questa era l’intenzione, anche se alcune scene la smentiscono in parte, manca in ogni caso la percezione di un cambiamento all’altezza della sofferenza vissuta quando alcuni eventi positivi (no spoiler…) le permettono di ripartire. Anche considerando quanto scrivi, comincio a pensare che si tratti di insufficiente mestiere (e mancanza di spessore, non “leggi” e non puoi rappresentare ciò che percepisci superficialmente, che non decodifichi e su cui non rifletti). Forse, dato che l’ho vista con piacere (anche in quanto onnivoro che si accontenta, evidentemente), ho aggiunto di mio un po’ di drammaticità, a partire dal quel quieto e terrificante “Chiudi gli occhi…”, così distruttivo da rendere pressoché impossibile conviverci. Non ho letto il romanzo e cercherò di farlo, sono curioso di comprendere meglio come fosse il personaggio nella mente di Tevis (so che Beth nel romanzo è bruttina, cosa che non si può dire di Anya Taylor-Joy).
Come inquadratura sperimentale mi riferisco alla scena in cui Beth incontra per la seconda volta il campione americano. Quando accade Beth non si vede e per diversi secondi i due parlano ma l’inquadratura resta fissa su Benny. Mi ha infastidito e ho pensato fosse intenzionale (e mal riuscito), potrebbe però essere solo sciatteria nel montaggio.
Credo che realizzare una fiction (che sia un film o una serie) sia un mestiere che può assurgere al livello di arte, dove non c’è nulla di male se si resta al livello di un buon mestiere, certamente producendo cose ben diverse. Le gemme sono necessariamente poche ma questo non toglie che un prodotto “normale” possa essere realizzato a “regola d’arte” da un valido mestierante. Ovviamente le esigenze di produzione di una serie tv, penso specialmente per la pressione dei tempi, possono rendere meno facile realizzare un buon prodotto.
15 novembre 2020 - 01:18
Chiedo scusa, mi sono accorto solo adesso che nel mezzo del mio commento ho messo un spoiler enorme senza alcun avvertimento. Se i moderatori vogliono inserirci una specie di allerta, non mi oppongo.
Anche io ho pensato che si volesse rappresentare Beth come anaffettiva, o qualcosa del genere, ma se è così allora Frank se l’è proprio cercata, perché costruire un personaggio con un simile disturbo senza sottrargli spessore e calore è uno degli scopi più ardui da raggiungere. E’ qui lo scopo non è stato raggiunto. Non vediamo una ragazza anaffettiva, vediamo un automa, come anche tu riconosci, o una marionetta. Invece ci è riuscito bene Gus Van Sant in “Elephant”. Dal momento che l’interprete non reagisce quasi a niente, il regista deve lavorare di fino con gli altri strumenti che il linguaggio del cinema gli offre (fotografia, montaggio, colonna sonora, ecc.) per far parlare l’anima del personaggio e affinché anche nell’anima dello spettatore si muova qualche cosa per un effetto di risonanza. Quando guardiamo “Repulsione” di Polanski proviamo anche noi una sensazione di claustrofobia e di angoscia e abbiamo ben chiaro cosa succede nella testa di Carol molto prima del climax finale, e sebbene nulla ci venga spiegato esplicitamente. I piani sequenza nel film di Van Sant hanno questo scopo, di parlare al posto dello psichiatra, per così dire. C’è un esempio stupendo anche in letteratura: “Lo straniero” di Camus. La prosa secca, dimessa, monotona, è l’espressione dell’anima di Merseault, personaggio altrettanto depersonalizzato quanto i due killer di Columbine. Con Frank invece non riusciamo nemmeno a capire se quella imperturbabilità sia voluta oppure no.
Se ho capito bene, ti riferisci alla scena al minuto 34 del terzo episodio, quando Benny le dice che non avrebbe dovuto arroccare contro Beltik. In realtà, è un espediente molto utilizzato fin dal cinema classico americano. Non è sciatteria nel montaggio anche perché non c’è montaggio. Se riguardi la scena, noterai che non ci sono stacchi, è un’unica ripresa: quando Benny si muove per raggiungere Beth, una carrellata laterale lo segue finché Beth non è in campo; lo stacco avviene quando lui le dice che il suo problema è il cavallo di donna. Un altro modo in cui lo si realizza, solitamente, è con una carrellata indietro (o con lo zoom out) finché non compare in campo il personaggio che sentiamo parlare. A meno che per sciatteria non intendevi che hanno proprio dimenticato di inserire le inquadrature di Beth; solo che questo sarebbe molto più che sciatteria, vorrebbe dire che in sala di montaggio erano tutti ubriachi fradici!
Sono d’accordo con quel che dici alla fine. Nella cosiddetta epoca d’oro hollywodiana, quella del cinema narrativo classico, che va all’incirca dalla prima guerra mondiale ai primi anni sessanta – cioè l’epoca di Capra, Curtiz, Hawks, Ford, Wilder, Lang, Murnau, del Codice Hays, dello Studio System e dello Star System, di Humphrey Bogart e di Marlene Dietrich, del montaggio invisibile e dell’inviolabilità della regola dei 180 gradi – molti erano abilissimi mestieranti, soprattutto gli sceneggiatori, o per meglio dire le sceneggiatrici, perché ce n’erano a bizzeffe, anche se spesso non accreditate. Quelli che ho citato no, eccetto Frank Capra che lo era e non lo era, ma il modello supremo di grande mestierante è Roger Corman, che poteva sfornare anche dieci film ben fatti in un solo anno! La differenza tra il mestierante e il vero artista, però, è questa: il primo può confezionare un eccellente prodotto, il secondo crea un’opera d’arte.
12 novembre 2020 - 20:56
Prosegue la travolgente ascesa di “The Queen’s Gambit” , adesso tra le prime cinque Serie per numero di giorni da Serie TV più vista su Netflix: 20!
La serie ha un rating di 8,8/10 dopo 69.249 voti su IMDB e 100% su Rotten Tomatoes!
13 novembre 2020 - 08:22
@GaborBalogh Non posso non aggiungere, e consiglio nel caso mancasse, “Quel che resta del giorno”: Signor romanzo, ma non uno dei miei 4-5 preferiti che abbia mai letto; il film, per me caso credo unico nei rapporti libro/film, lo supera, saldamente sul podio dei migliori che abbia mai visto.
Scusate l’OT. 😀
13 novembre 2020 - 15:50
Non ho letto il romanzo e non ho visto il film, quindi non posso dirne nulla, ma devo rimediare alla mancanza, grazie del suggerimento. Di Ivory ho visto i film tratti dai romanzi di Forster, di cui però ho letto solo “Il viaggio più lungo”, che Ivory non ha adattato. Di James ho letto “I bostoniani” e “Gli europei”, ma non ho visto i film, mentre “La coppa d’oro” né l’ho visto né l’ho letto. Insomma, è una situazione particolare, quello che ho visto non l’ho letto e quello che ho letto non l’ho visto…
13 novembre 2020 - 09:59
Gabor, porcamiseria, stai paragonando una serie TV Netflix a alcuni kolossal hollywoodiani! 🙂 Con tutte le conseguenze (a partire dal budget!) che ne conseguono! per favore, togliti l’abito da critico cinematografico “con-la-puzza-sotto-il-naso” e segui i consigli di Angelmann e Ale, guardale a serie come UNA SERIE, apprezzane lo sforzo (riuscito!) di far appassionare a qualcosa di scacchistico molti non adepti! 🙂 non è che bisogna stare esclusivamente sulle grandi produzioni cinematografiche di autore… 🙂
13 novembre 2020 - 16:01
Insomma mi stai suggerendo di deporre le mie idee personali e conformarmi supinamente all’opinione generale e al giudizio di Rotten Tomatoes, in nome del quieto vivere e per non scontentare i più sensibili. Guarda, con tutta la buona volontà non posso adeguarmi alla norma, ad essere “comme il faut”, e non proverò a genuflettermi dinanzi all’inviolabile e sacro Verbo dell’onnipotente Massa. Non sono neanche contro a prescindere, se la mia idea coincide con quella di tutti va altrettanto bene. In questo caso no, non coincide affatto. La tua benigna indignazione la capisco, ma lasciati persuadere del fatto che in me non c’è mai stata alcuna volontà di offendere nessuno, non ho mai detto che siete tutti degli imbecilli perché avete apprezzato la serie. Sono soltanto opinioni. D’altronde, può darsi benissimo che a sbagliare sia io, l’argomento “ad judicium” è sovente scorretto ma qualche volta combacia casualmente con la verità. Forse “La regina degli scacchi” è una serie bellissima e prossima alla perfezione (come ho letto da qualche parte), però le mie idee e sensazioni divergono da questa valutazione e finora ho preferito non tradire me stesso e non turlupinare voi tutti dicendo il contrario di quello che penso. Avrei potuto tacere per non infastidire nessuno, ma leggendo l’articolo non ho trovato scritto da nessuna parte che si accettano solo commenti e recensioni positive.
L’accusa di snobismo a coloro che hanno un’idea discorde dalla norma è antica quanto il mondo e affatto naturale, quindi non me ne risento.
In quanto al resto, di kolossal non ne ho citato nemmeno uno. Qualcuno potrebbe definire tale “L’età dell’innocenza”, tuttavia le produzioni più costose degli anni Novanta sono Titanic (1997) con 200 milioni (che oggi sarebbero 329.5) e Waterworld (1995) con 172 milioni (oggi: 300.2). Il budget per “L’età dell’innocenza” fu di 34 miserabili milioni, quindi non lo chiamerei un kolossal. Certamente sono più soldi di quanti ne sono stati stanziati per “La regina degli scacchi”, poiché equivalgono a 62.6 milioni di dollari attuali, mentre la serie di Frank dovrebbe aggirarsi intorno ai 20 milioni (a naso, direi che ogni puntata deve essere costata sui 3 milioni. Il budget non è stato reso pubblico, almeno sul Web, perciò mi baso solo su un mio calcolo molto approssimativo), ma comunque non si può definire kolossal.
Ma alla fine, che importanza ha il budget? La valutazione di un film deve prescindere da fattori come il botteghino e il merchandising, altrimenti i film degli Avengers, Harry Potter e Rapunzel sarebbero fra i più grandi capolavori della storia del cinema, mentre tutto il Neorealismo italiano e la Nouvelle Vague, o l’opera di grandi registi come Satyajit Ray, Glauber Rocha o Lav Diaz, sarebbero da liquidare alla stregua dei film di Vanzina. Sai quant’è costato “Ladri di biciclette”? La strabiliante cifra di 157 MILA dollari attuali! E “Fino all’ultimo respiro”? La bellezza di 776.8 mila dollari di oggi. Perciò il budget non c’entra niente, anzi la maggior parte delle produzioni ciclopiche sono solo film d’intrattenimento per le masse, non opere d’arte. O forse, per paura di essere annoverati tra gli snob, dobbiamo mettere sullo stesso piano “The Lone Ranger” e “Roma città aperta”, “Toy Story 3” e “I 400 colpi”, o addirittura mettere i primi al di sopra dei secondi?
La valutazione di un film non deve neppure essere condizionata da cose come lo sforzo profuso o il numero di nuovi iscritti ai circoli scacchistici. Sono due risultati meritori, ma cosa c’entrano con la qualità del film?
13 novembre 2020 - 13:36
A me la serie non è piaciuta. L’ho trovata una schifezzuola ben confezionata e sapientemente condita con cose ad effetto. Ma una schifezzuola.
Molto, molto, molto meglio il semplice “In cerca di Bobby Fischer”.
Aggiungo che pur essendo un grande appassionato di cinema, personalmente non ho mai capito la distinzione tra film, film TV, serie, ecc. Io faccio solo riferimento alle emozioni che mi arrivano, non mi interessa se si tratti di un film o di un film TV. Ricordo che anni fa in un forum sul cinema qualcuno mi riprese perché avevo parlato in termini assai positivi del film “Uno bianca” come se fosse un film. E’ un film TV, mi venne detto. E allora? Chi se ne importa? Anzi!
P.S. Che poi… anche il capolavoro “Duel” di Spielberg in teoria è un film TV… per dire…
13 novembre 2020 - 16:30
Ora mi sento meno solo…
Riguardo la distinzione fra serie tv e film, credo tu faccia riferimento a questa mia frase: “L’unica scusante che posso consentire alla serie in oggetto è che si tratta appunto di una serie, quindi è per forza di cose inferiore a un buon film”. In realtà, ripensandoci, la serie in questione non ha neanche questa scusante, perché regia e sceneggiatura sono interamente affidate a un singolo autore, quindi è come se fosse un film di sette ore, come il già citato “Satantango” oppure “La meglio gioventù”. Generalmente, quando si screditano le serie tv in favore dei film, o viceversa, lo si fa senza argomenti, ma sulla base di un pregiudizio. Ora, io qualche argomento ce l’ho, discutibile sicuramente, ma ce l’ho. Provo a snocciolarne qualcuno al volo e currenti calamo.
L’argomento più forte di cui ho conoscenza a favore delle serie tv è che di solito hanno molto più spazio per poter sviluppare con completezza e profondità una storia e le psicologie di ogni personaggio, mentre il film generalmente si attesta sulle due o tre ore, quindi è condannato alla superficialità. Ovviamente è falso e trovo incredibile che ci sia gente che sostenga una simile corbelleria. In generale, cioè per tutte le forme d’arte narrativa, la psicologia dei personaggi non la si approfondisce esplicitando qualsiasi aspetto e ogni bagatella possibile, ma semmai, al contrario, illuminando nel modo più incisivo gli aspetti predominanti, che solitamente sono pochi. Bisogna cioè ricercare sempre l’essenziale, tanto nello stile quanto nella struttura, perché vale sempre ciò che diceva Hugo della prosa: “Più breve è la frase, più intenso è il colpo”. Perkins, con lo stesso scopo, fece tagliare a Wolfe metà del suo romanzo “O Lost” (visto che siamo in tema, non può mancare il riferimento cinematografico: “Genius”, di randage). In effetti, se fosse legittimo quell’argomento addotto dai sostenitori della superiorità delle serie tv, l'”Amleto” e il “Macbeth” sarebbe opere superficiali, giacché in un esiguo spazio narrativo Shakespeare non avrebbe potuto sviluppare profondamente le psicologie dei personaggi. Le uniche opere di narrativa valide, allora, sarebbero i romanzi fluviali, mentre “Lo straniero” di Camus o “Bartleby lo scrivano” di Melville (che peraltro è un racconto), oppure l’opera omnia di Cechov, sarebbero storielle mediocri. Invece, di solito è vero il contrario: le serie tv si dilungano in modi che mi sconcertano prima di annoiarmi: continue ripetizioni di cose già dette una dozzina di volte, dialoghi interminabili e spesso inutili, flashback insignificanti che servono solo ad allungare il brodo e dare dello scemo allo spettatore il quale, se non gli spieghi ogni singola quisquilia del passato dei personaggi, poveraccio non capisce. Per comporre un’opera fluviale mantenendo sempre un livello elevato devi essere Proust, altrimenti il polpettone è inevitabile. Se un regista sa bene cosa vuole dire e sa come dirlo, gli bastano due ore per dire tutto. Non c’è sufficiente sostanza in “Arancia meccanica” perché è troppo breve? Qualcuno mi trovi una serie tv di millemila ore che riesca a dire tutto ciò che Kubrick è riuscito a infilare lì dentro (o in “2001”, o in “Shining”, ecc). E’ evidente, però, che più un autore è privo di talento, più ha bisogno di spazio per esprimersi, perché la sintesi, la capacità di concentrare i significati nel minore spazio possibile, magari in una singola immagine, è un’abilità rarissima.
Tuttavia, ci sono alcuni grandi film (pochissimi) che durano molto, come quelli che ho citato di Bela Tarr, di Edgar Reitz e di David Lynch (la terza stagione di Twin Peaks, formalmente, sarebbe una serie tv, anche se né da me né – cosa molto più importante – da Lynch stesso è considerata una serie). Perché, allora, le serie tv non riescono a ergersi al di sopra della mediocrità? Io penso che sia per ragioni di produzione. Solitamente, una serie tv ha il solo scopo di incassare molti quattrini, sia rendendo molto appetibile al grosso pubblico il prodotto (non solo con strategie di marketing, metodo ovviamente sfruttato anche per i film, ma altresì con un abuso di una serie di tecniche narrative come il cliffhanger), sia allungandolo l’intreccio il più possibile, cioè battendo il ferro finché è caldo. Parlando astrattamente, la migliore serie, in questo senso, è quella che dura all’infinito (tipo Beautiful!). Per prolungare una serie nel tempo è necessario disporre di molti artisti da avvicendare nel lavoro, cioè molti registi, molti sceneggiatori, molti scenografi, eccetera, il numero variando secondo la lunghezza della serie. Ho contato, per esempio, i registi de “Il trono di spade”: diciannove! Tutti dei nessuno qualunque, tra l’altro. Non so quanti siano gli sceneggiatori che si sono avvicendati, e i direttori della fotografia, e gli scenografi, eccetera, ma si aggireranno più o meno sullo stesso numero. Ora, per mantenere una certa continuità e coerenza stilistica è necessario per forza livellare lo stile personale e le idee estetiche di tutti gli artisti implicati. Se ognuno girasse la sua puntata con il proprio stile nessuno ci capirebbe nulla. Immagina una serie in cui la prima puntata sia diretta da Tarantino, la seconda da Farhadi, la terza da Kar-wai, la quarta da Diritti, ciascuno con il suo stile personale, sarebbe un pastrocchio irricevibile. Ma è ovvio che se livelli lo stile personale di un artista, grande o piccolo che sia, stai annullando l’artista stesso, giacché gli togli la sua stessa personalità (ammesso che ne abbia una), e così da artista diventa un mero operaio da catena di montaggio. Già se ne lamentavano molti artisti della Golden Age hollywoodiana, lamento a cui Frank Capra diede voce pubblica in una celeberrima lettera aperta al NY Times (se non sbaglio, era il 1929). E mi sembra che nel mondo delle serie tv, soprattutto americane, viga oggi il medesimo strapotere del produttore (e del distributore!) che c’era a quei tempi. Nessuno si è mai chiesto perché i grandi registi, sceneggiatori, eccetera, non lavorano alle serie tv? Ovviamente non è per snobismo. Qualche volta è capitato che un regista di vaglia si impegnasse in una puntata di una serie: Tarantino in E.R. e in CSI, Scorsese in Boardwalk Empire, e pochi altri (al momento mi vengono in mente Altman, Pollack e Spielberg, ma tutti e tre per lanciarsi, prima che avessero successo con i film, dopodiché hanno smesso).
Un altro motivo per cui le serie tv sono fatalmente inferiori ai film è che dipendono, strada facendo, via via che prendono forma, dai dati dell’audience. Una serie può essere un capolavoro assoluto dinanzi a cui “Otto e mezzo” impallidisce, ma se non c’è pubblico viene segata senza tanti complimenti (mentre a Fellini fu concesso di completare il suo diamante perfino senza sceneggiatura!).
Di motivi ce ne sarebbero altri, ma sono meno convincenti e già mi sono dilungato parecchio. Mi fermo qui e chiedo scusa per la sciatteria dell’esposizione, ma non ho tempo per mettermici di buzzo buono.
13 novembre 2020 - 17:47
Comunque sia, grazie per i contributi, è un bel leggere!
13 novembre 2020 - 18:18
quoto Angelmann: è un bel leggere (e io non vedo snobismo)
14 novembre 2020 - 18:58
Ringrazio entrambi, ma ieri notte mi sono ricordato di aver dimenticato, nella fretta della scrittura, di completare un ragionamento, anche se certamente si è capito dove volevo andare a parare.
Dal momento che una serie tv costringe ogni artista che vi lavora a reprimere il suo stile personale e le sue proprie idee estetiche per adeguarsi ai parametri imposti dalla produzione per quella specifica serie, in modo da salvaguardarne l’unità e la coerenza stilistica, il prodotto stesso risulterà fatalmente altrettanto livellato, piatto, neutrale. Del resto, non si vede da che parte potrebbe mai nascere un’idea formale significativa, una qualche accensione stilistica, un’originalità di tratto, se gli autori delle serie, oltre ad essere per lo più degli zero incarnati, sono pure costretti a strozzare quel fioco barbaglio di intelligenza individuale che per avventura dovesse guizzare nella loro testa. La bellezza e la profondità di senso non si producono per caso o per partenogenesi.
Gli episodi diretti da Tarantino e da Scorsese dimostrano che non c’è speranza nemmeno per i grandi. E’ impossibile riconoscere lo stile dei due registi, i loro episodi somigliano per filo e per segno a tutti gli altri. Nell’episodio di CSI “Sepolto vivo” c’è un solo minuto e mezzo in cui Tarantino fa Tarantino, mettendoci per così dire la sua firma (peraltro completamente fuori luogo, perché genera una disarmonia di stile eccessiva), ma per tutto il resto dell’episodio – che è diviso in due puntate – il suo lavoro è indistinguibile dal lavoro degli altri dozzinali registi della serie. Dovendosi uniformare ai parametri tecnici e stilistici di quella serie, ha dovuto disinnescare il suo genio, neutralizzare il suo stile, narcotizzare la sua immaginazione, tramutandosi in una specie di manovale della regia che esegue in silenzio ordini superiori. Tarantino è stato, per così dire, detarantinizzato. Ecco il principale motivo, a mio parere, per cui i grandi registi non si impegnano nelle serie tv, lasciandole soprattutto a quelli che non hanno idee, che hanno da guadagnarsi la pagnotta, che tengono famiglia e stentano a campare. E questo è il secondo ragionamento che avevo lasciato incompiuto.
13 novembre 2020 - 16:09
Gabor, lascia perdere. gli sproloqui (ripetuti) da critico cinematografico snob sono fuori luogo. Ti ovlevo far notare solo che nel tuo primo intervento hai paragonato “la regina degli scacchi” a “il colore dei soldi” e “Minority report”, che sono tutto fuorchè serie per internet TV… non saranno kolossal (oddio, Minority Report credo che lo fosse nelle intenzioni). Ma stai mettendo sullo stesso piano cose completamente diverse per budget e target.
NEl tuo secondo itervento, poi, sbagli ancora: stai paragonando opere di cinquanta-sessanta ani fa o più), quindi con tecniche e costi diversi e in periodi diversi. per favore: se vuoi paragonare “la regina degli scacchi” a qualcosa, fallo con altre mini-serie televisive /netflix / amazon prime. LASCIA PERDERE ogni riferimento a film CINEMATOGRAFICI: non lo è.
Poi ovviamente può non piacerti (come non è piaciuta a MagnusAlpha), ma se non ti piace perchè non è un capolavoro DEL CINEMA, sbagli paragone. (oppure tu sei di quelli che non apprezzano una fotografia artistica perchè la paragonano a un quadro di Leonardo?)
13 novembre 2020 - 16:31
ok
14 novembre 2020 - 17:28
che piacere sapere che il nostro gioco fa e farà discutere per molto tempo.
c’è da essere grati a questa serie televisiva, anche se non dovesse piacere.
non vedo l’ora di leggere le recensioni di tutti gli utenti nella speranza che qualcuno sia riuscito a trasmettere con grande originalità e coinvolgimento emotivo la grandiosità del nostro gioco.
in bocca al lupo a tutti !
15 novembre 2020 - 13:40
Mi aggiungo ai complimenti a GaborBalogh. Ho visto pochissimi film negli ultimi anni, ma il suo intervento mi ha fatto venir voglia di guardarmi qualche grande classico della cinematografia.
Ironicamente, la mia ultima visione è stato il corto “La febbre degli scacchi” del 1925. Sarò un sempliciotto, ma la comicità vecchia di un secolo mi ha fatto comunque divertire.
15 novembre 2020 - 20:43
Felice di averti fatto tornare la voglia di cinema! Io mi vergogno un po’ a dirlo, ma “La febbre degli scacchi” non l’ho mai visto. Peraltro Pudovkin è uno dei maggiori rappresentanti dell’avanguardia sovietica, un pioniere del montaggio, insomma uno serio, di cui ho visto la trilogia “La madre” (da un romanzo di Gorkij) e “La fine di San Pietroburgo”. Quindi la vergogna per non aver visto “La febbre degli scacchi” è tripla.
Sempliciotto un corno! La comicità di quei tempi, soprattutto lo slapstick, viene ancora oggi ampiamente studiata ed emulata da moltissimi comici, attori e registi. Ovviamente i quattro invincibili sono Chaplin, Keaton, Lodge e Jacques Tati (“Le vacanze di Monsieur Hulot” è uno dei quattro film preferiti di David Lynch, insieme a “Otto e mezzo”, “Viale del tramonto” e non mi ricordo il quarto).
15 novembre 2020 - 20:44
La terzo della trilogia è “Tempeste sull’Asia”, me lo sono perso per strada.
15 novembre 2020 - 21:21
Queen’s Gambit, fra i primi articoli proposti anche dalla CNN…
gli scacchi volano!
https://edition.cnn.com/2020/11/13/opinions/queens-gambit-perfect-escapism-stewart/index.html
15 novembre 2020 - 21:30
TG1 stasera ha mandato in onda un servizio che partendo dalla serie La Regina degli scacchi in un minuto e mezzo ha messo insieme tanti argomenti scacchistici culminati con la citazione della sconfitta fraudolenta di Caruana da parte di “uno sconosciuto giocatore armeno”?? (sarebbe il GM Tigran Petrosian)
http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-ffd7f9c8-e6c2-4735-b7a2-6dc6468f8ff7-tg1.html
16 novembre 2020 - 10:28
Poteva andare peggio. Potevano confonderlo con l’omonimo Campione del mondo.
16 novembre 2020 - 09:18
Giudichiamo “The Queen’s Gambit” per quello che è: una serie tv Netflix.
Ho Netflix da un paio di anni e nelle serate libere guardo diverse serie e film.
Ho visto “The Queen’s Gambit” in due serate e mi è piaciuta.
Se ha ricevuto dalla critica un giudizio unanime positivo, qualche motivo ci sarà?
Vogliamo paragonarla ad altre serie? allora questo ha un senso, altrimenti si fa solo confusione e basta.
16 novembre 2020 - 10:23
Bravo Darkside. é quello che sto sostenendo di fronte a chi vuole paragonarla a film per il cinema. (a me personalmente certi tipi di cinefili mi fanno ricordare il prof. GuidobaldoMaria Riccardelli…)
16 novembre 2020 - 15:21
Il paragone dipende sempre dal fine a cui è diretto. In teoria, possono paragonarsi anche opere di forme d’arte completamente diverse, per esempio un concerto brandeburghese di Bach e un dipinto di Francis Bacon. Ma devi paragonare queste opere solo come opere d’arte, non come concerti o come dipinti, perché uno è un concerto e l’altro no, uno è un dipinto e l’altro no. Tuttavia, sono ambedue opere d’arte, fino a prova contraria. Ovvio che non si può fare un confronto sull’armonia dei suoni, dato che il dipinto non presenta questo aspetto; né sulla tonalità dei colori, dato che il concerto non ne ha (in realtà, anche la musica ha i colori, ma sono una cosa diversa e non si possono confrontare). Di sicuro è un confronto difficile e di sicuro non si può aspirare a nessuna obiettività. Però si può dire, p.e., che il Mosè di Michelangelo è un’opera d’arte superiore a “Tre metri sopra il cielo” di Moccia, benché la prima sia una statua e il secondo uno (pseudo)romanzo. Ci si può chiedere, ad esempio: quale delle due opere riesce a scendere più in profondità nella realtà dell’uomo? Quale delle due raggiunge un più alto grado d’espressione nell’ambito del genere artistico a cui appartiene? Quale delle due è capace di racchiudere in sé e di esprimere una vasta gamma di significati? Quale delle due, l’opera di Michelangelo o quella di Moccia? Se uno non si rende conto della differenza, anche il più profano degli esteti, un problema ce l’ha e forse per lui non c’è speranza.
Poi si possono fare paragoni includendo nella valutazione anche la specifica forma di quell’arte. In questo caso, è chiaro che non possiamo paragonare un dipinto a un racconto. Dovremo paragonare dipinti a dipinti e racconti a racconti.
Tutto questo in generale. Ma nello specifico dei film e delle serie tv, che non si possa fare un paragone è un fesseria bella e buona. Appartengono ambedue alla medesima forma d’arte, ovvero il cinema. O forse non è così? Cari lordste e dark, vorreste spiegarmi, di grazia, dove sarebbero le differenze A LIVELLO FORMALE E REALIZZATIVO? Gli artisti, gli operatori e i tecnici sono gli stessi; gli strumenti tecnologici adoperati sono gli stessi; il processi di preproduzione, produzione e postproduzione è lo stesso. La differenza dove sarebbe? Forse la lunghezza dell’opera? Quindi un romanzo di mille pagine è una forma d’arte diversa da un romanzo di duecento? Peraltro, esistono film lunghi quanto una lunga serie, per esempio Heimat, che ammonta a circa sessanta ore. Non ripetetemi che le differenze sono il budget e il target, perché è un’altra castroneria. I target variano per le serie tv e per i film e molto spesso coincidono. Primo. E secondo, il target non c’entra nulla, se un film è scadente, è scadente qualunque sia il suo target. Dobbiamo mettere “Vacanze di Natale” sullo stesso livello di “Quarto potere” perché il target è diverso? Ma non diciamo cretinate, dai, “Vacanze di Natale” è un cesso qualunque sia il suo target e il suo budget! E anche il budget non c’entra nulla, l’ho già detto sopra, la maggior parte dei più grandi film aveva un budget limitato o addirittura ridicolo, come “Ladri di biciclette”. Ce l’avete un motivo un pochino più valido o sono soltanto queste baggianate le vostre uniche argomentazioni? Fate uno sforzo, dai.
Fino ad ora, le vostre uniche argomentazioni sono state le seguenti:
– Il budget è diverso (corbelleria)
– Il target è diverso (corbelleria)
– Ha fatto appassionare agli scacchi tante persone (non c’entra nulla e poi non credo che al produttore, al distributore e al regista fregasse in alcun modo)
– Ha ricevuto un giudizio positivo dalla critica (dunque dobbiamo tacere e sottometterci, noi poveri laidi vermi insignificanti, inchiniamoci e santifichiamo l’esperto)
– Certi cinefili sembrano Guidobaldo Maria Riccardelli (questo argomento è il migliore, una vera perla di un finissimo oratore, Demostene ti fa un baffo!)
Dunque sono questi i vostri argomenti? Dai, un po’ di impegno ragazzi, siamo forse all’asilo nido? Potete fare di meglio, dimostrate di avere sale nella zucca. Dal punto di vista formale (si tratta di arte, quindi conta solo la forma), quali sono le differenze tra film per il cinema e serie tv? Aspetto con ansia una vostra risposta.
16 novembre 2020 - 16:11
Forse (ma mi muovo con prudenza, non sono su un terreno familiare) la differenza sta nelle premesse: quasi tutte le serie tv (se non tutte, ma credo che qualcuna abbia delle pretese, come ad esempio Sense8 delle Wachowski, anche se il risultato mi è parso buono ma non così tanto buono) e moltissimi film nascono già all’ideazione come prodotti di intrattenimento, magari da confezionare bene (professionalità) ma senza voler essere “Arte”.
Ovviamente, in linea teorica, se l’opera nasce con una certa coerenza (stesso regista e sceneggiatore per l’intero svolgimento, ad esempio, come in questo caso), nulla impedisce che venga realizzata con tale cura, amore e professionalità da assurgere ad un livello elevato.
I confini sono labili, da Arte a livello elevato a buon prodotto professionale, via via scendendo.
Il tema posto da GaborBalogh è, per come l’ho percepito, che anche nell’ambito delle serie tv non sia stata realizzata bene (il che non vieta che possa piacere ed avere ottimi riscontri). Molti sviluppi stereotipati, in parte già esemplificati nei post precedenti. Sforzo creativo modesto, al massimo esplicitato nel cercare di rendere l’aspetto scacchistico.
Aggiungo un dettaglio: pur non avendo letto ancora il romanzo, ho appurato da internet che l’incidente in cui muore la madre (e Beth si salva miracolosamente) nel romanzo è diverso, a morire sono entrambi i genitori. Quindi niente dramma dell’abbandono del padre, nè disperazione e suicidio di fatto della madre, nessuna contestualizzazione iper – drammatica di quel “Chiudi gli occhi”. Nella fiction è stata aggiunta questa componente per drammatizzare ulteriormente e preparare il colpo di scena in cui si comprende meglio come è andato l’incidente. Tutto questo senza capire che alzare così tanto la pesantezza e la tragedia del vissuto di Beth avrebbe richiesto virtuosismi elevati nel tratteggiare personalità e sviluppo di Beth, per elaborare e superare in qualche modo un dramma così pazzesco. Drammaticità a buon prezzo, colpo di scena. Un po’ modesto, no?
Poi, come già detto, a me è piaciuta molto: ci sono gli scacchi, la protagonista è interessante, si va a Mosca a battere i GM russi a casa loro! Più che sufficiente per un onnivoro delle fiction come me!
16 novembre 2020 - 17:27
Hai ragione, le premesse sono diverse, le serie tv sono per lo più orientate al puro intrattenimento, mentre i film maggiormente all’arte. Ma ci sono due considerazioni da fare:
1) Anche molti film sono orientati all’intrattenimento, ma soprattutto ci sono film che sono opere d’arte e allo stesso tempo prodotti d’intrattenimento. Tarantino riesce a raggiungere benissimo entrambi gli scopi, così pure Scorsese, spesso anche P.T. Anderson, Spike Lee, Woody Allen; oppure, guardando ai classici più antichi, abbiamo i film di Chaplin, Keaton, Langdon, TUTTO il cinema classico americano, eccetera. Il film di alto livello artistico non è solo quello di Ejzenstein, di Sokurov o di De Oliveira, cioè quei film che non presentano alcun carattere di intrattenimento. Un’opera d’intrattenimento non è necessariamente priva di valore artistico, dipende dalla presenza o assenza di talento o genio dell’autore. La statura di Dickens è pari a quella di Shakespeare (e non sono io a dirlo, ma letterati ben più titolati di me), e peraltro anche le opere di Shakespeare sono, e soprattutto erano nella sua epoca, opere d’arte e d’intrattenimento insieme (così come le opere di Moliére o di Goldoni). Questo lo dico perché vedo che spesso si cerca di nobilitare la serie tv ricordando che anche Dickens e Dostoevskij scrivevano romanzi a puntate. Certo, ma quelli erano Dickens e Dostoevskij, che ti avrebbero fatto un capolavoro anche con un cinepanettone. Dove sono i Dickens e i Dostoevskij tra gli autori delle serie tv? Vorrei ricordare che a quel tempo non c’erano solo quei due, c’era anche un lunga schiera di scribacchini e pennivendoli che fabbricavano romanzi a puntate di una mediocrità assoluta. Se consideriamo la terza stagione di Twin Peaks una serie tv, ecco che abbiamo il nostro Dickens delle serie tv e l’unica serie tv che è assurta al livello dei grandi film.
2) Il giudizio estetico deve essere possibile (e necessario!) anche per le opere finalizzate al solo intrattenimento, e senza nessuno sconto. Alla fine è pur sempre cinema. Non possiamo dire: i Vanzina girano i loro film con l’intenzione di fare un triviale cinepanettone, quindi non possono essere giudicati. Così è troppo facile.
Tuttavia, come tu stesso hai ricordato, “La regina degli scacchi” è mediocre anche come serie tv. Se i più sensibili, come lordste e dark, non possono proprio tollerare un confronto tra film e serie tv, possiamo confrontare “La regina degli scacchi” con un’ottima serie tv (che, tolta la terza stagione di Twin Peaks, è secondo me la migliore, almeno tra quelle che ho visto io), cioè “Breaking Bad”. Anche qui, però, “La regina degli scacchi” scompare senza lasciare traccia, venendo umiliata sotto tutti i profili possibili e immaginabili. “Breaking Bad” è un eccellente prodotto d’intrattenimento – che presenta anche qualche cosa di più – mentre “La regina degli scacchi” è un prodotto decisamente scadente, a mio parere (sempre che dark e lordste vogliano concedermi la libertà di avere un mio parere personale, peraltro argomentato estesamente, al contrario dei loro pareri fondati sul nulla cosmico).
Poi non ho capito qual è il loro problema. E’ forse il fatto che ho un’opinione diversa dalla loro? Non ho ancora capito il motivo dell’offesa che lordste mi ha voluto rivolgere sin dall’inizio. Ma lui almeno lo sa qual è il motivo?
16 novembre 2020 - 18:14
Se me lo consenti, approfitto della circostanza per un off – topic clamoroso (conosco personalmente Bellincampi, Mega e Blade, spero che me la passino liscia…).
Una trentina di anni fa, girando i canali, mi trovai casualmente a vedere in tv “Greed”, di von Stroheim. Cinema muto, stavo per spegnere e… mi sono trovato inchiodato alla poltrona per tre ore. Emozioni, fascino delle immagini, spessore dei personaggi, scavo nella natura umana, senza una parola… Alta Arte cinematografica, con tutta evidenza!
Scoprii in seguito che si tratta di una grandissima opera, considerata una pietra miliare della storia del cinema. Nel tempo l’ho chiesto moltissime volte ma non ho mai conosciuto qualcuno che l’abbia visto. Il senso del chiederlo è per condividere lo stupore per il modo in cui quest’opera mi ha impattato. L’hai visto? Sollevami da questa solitudine trentennale!
Poi difficile avere pregiudizi sul cinema muto se appena si dà un’altra occhiata. Adoro Luci della città, ad esempio, e la Febbre dell’oro, anche questo visto in tv per caso, è semplicemente straordinario.
Per una esperienza simile (lo stupore di fronte ad un’opera d’arte) mi viene in mente il momento in cui ho visto al museo di Olimpia la statua di Hermes, di Prassitele. Mi sono trovato a guardarla per diversi minuti e, dopo aver proseguito, sono tornato indietro e l’ho guardata ancora a lungo. Mai saputo realmente il perché.
16 novembre 2020 - 18:43
Sì, l’ho visto, anche perché è citato in TUTTI i manuali e i saggi sul cinema che ho letto, per cui non potevo non vederlo. Quando anno fa lessi “Saper vedere il cinema”, di Costa, decisi di farmi una maratona stile Mentana e vedere tutti i film citati nella prima parte, quella storica, mano a mano che procedevo nella rilettura, da Lumière, Porter e Méliès fino a P.T. Anderson e Inarritu. È stata una bella esperienza, durata quattro mesi. Ovviamente fra quei film c’era anche Rapacità. Il quale ebbe un destino travagliato, poiché la versione originale era lunga, se non sbaglio, intorno alle sette o otto ore, ma la produzione, che all’epoca era un dio severo e crudele, ne segò circa sei ore! Certo Stroheim era anche un tipino piuttosto esaltato e con manie di grandezza sproporzionate. È stato anche un notevole attore, lo trovi p.e. in “Viale del tramonto” che interpreta il maggiordomo (ed ex marito) di Norma (Gloria Swanson). Per inciso, se non hai visto questo capolavoro, devi precipitarti a vederlo.
16 novembre 2020 - 20:03
Viale del tramonto l’ho visto da ragazzo (15 o 16 anni, quell’era lì) e ne ho un ricordo vago. Nella mente ho una inquadratura del viso della Swanson (e non sarà un caso se mi è rimasta in memoria) e il ricordo del suo mondo devastato dal perduto successo. Lo trovai pesante e un po’ angosciante. Non avevo gli strumenti per apprezzarlo, chissà se basterebbero quelli che ho oggi.
Greed ti è piaciuto meno di altri film, mi sembra di capire.
Come ho già scritto, sono un onnivoro, in generale in tutti i campi dell’arte, ho più una cultura (modesta) di carattere scientifico.
Tra i miei film preferiti Nuovo Cinema Paradiso, Amarcord, C’era una volta il West, Il Padrino, I predatori dell’arca perduta, Schindler List, L’appartamento, Irma la dolce, Casablanca, la trilogia del Signore degli anelli, Dersu Uzala, Kagemusha, i citati film muti. Luci della città forse il mio numero uno. Una bella miscellanea da onnivoro!
Grazie del riscontro!
16 novembre 2020 - 21:14
No no, Rapacità mi è piaciuto molto e prima o poi lo rivedrò. È un peccato che sia andata perduta la versione originale, perché l’avrei visto volentieri tutto intero.
Dei film che hai citato, Amarcord è il mio preferito, lo conosco quasi a memoria. Poi Luci della città e ovviamente i due di Kurosawa, perché di lui mi piace tutto.
16 novembre 2020 - 19:57
Gabor, io non ti ho mai offeso “fin dall’inizio”. ti ho fatto notare una secondo me pesante illogicità nella tua critica alla serie, dato che la mettevi a paragone con dei film (anche storici e sicuramente non pensati come la serie). Bene: finalmente dopo tanta polemica hai paragonato “la regina degli scacchi” a altre serie, e spiegato perchè la consideri inferiore. tutto qui; non ho mai voluto bandire la tua opinione ma pretendevo che fosse quanto meno fondata su paragoni accettabili. Poi ognuno ha le sue opinioni, secondo me ad esempio BreakingBad è geniale ma TwinPeaks (tutta) è troppo delirante per essere considerato un vero capolavoro.
16 novembre 2020 - 20:26
Se si trattava solo di questo potevi limitarti a esprimere educatamente la tua opinione e ne avremmo potuto discutere. Personalmente, non mi sono offeso, sono solo curioso di sapere perché mi consideri uno snob. Perché ho un’opinione diversa dalla tua? Perché ho confrontato serie TV e film? Perché ho fatto delle citazioni? Uno snob, per essere tale, deve avere un atteggiamento di sufficienza e superiorità, ma io non ho mai preteso di avere ragione, né ho liquidato le idee altrui senza neppure degnarle di attenzione e sono sempre stato aperto al dialogo. Da qui la mia curiosità, visto che hai insistito due o tre volte su questa faccenda dello snobismo, deve esserci un segno evidente da qualche parte che però io non vedo.
Le mie argomentazioni sul perché possono essere confrontate le serie TV con i film, o addirittura, in certe circostanze, opere d’arte appartenenti a generi completamente diversi, io le ho snocciolate. Finché qualcuno non mi dimostra, con argomentazioni solide, il contrario, io continuerò a pensare che possono essere confrontate. Non sono incline a credere per fede, non mi basta che uno venga a dirmi che sbaglio e che devo piantarla di fare certi confronti, deve anche mostrami perché non devo, dov’è che sbaglio, e deve anche voglia di dialogare, altrimenti è meglio che rinunci subito.
E poi ci tengo a sottolineare che io non ho polemizzato con nessuno, ho soltanto dialogato con alcune persone che non hanno trovato motivi per considerami uno snob. La polemica l’hai iniziata e portata avanti solo tu con argomenti come “porca miseria lascia perdere sei uno snob e sbagli”. Io avevo tanto poca voglia di fare polemica che ti ho risposto con un secco “ok”.
16 novembre 2020 - 23:28
Intervista di un’ora di Jennifer Shahade a Scott Frank e Garry Kasparov: https://youtu.be/562XqQUC3U4
17 novembre 2020 - 12:44
La regina degli scacchi anche su Forbes. Titolo: ‘The Queen’s Gambit’ deve essere una delle serie Netflix più popolari di sempre.
Nel frattempo prosegue la striscia di numero di giorni della Serie TV più vista su Netflix nel mondo: 25 giorni, seconda dietro solo The Umbrella Academy (30 giorni).
Il 16 novembre la serie dedicata agli scacchi comincia ad essere incalzata da un’altra serie (The Crown) ma, oltre ad essere ancora prima nel mondo, resta prima in diversi stati tra i quali ovviamente la Russia e diverse nazioni ex URSS. Tra i paesi dell’UE è ancora in vetta in Francia, Croazia, Grecia, Bulgaria, Romania ed in Italia!
17 novembre 2020 - 13:15
Entusiastiche molte delle recensioni apparse sui siti italiani.
Ovviamente c’è anche chi non è d’accordo. Il secolo XIX: “Tutti pazzi per “La regina degli scacchi”, la bellezza della banalità. La nuova serie di Netflix fa impazzire la Rete e colleziona recensioni entusiasmanti e voti altissimi. Ma la storia è prevedibile più o meno già dalla fine del primo episodio.”
Nel frattempo c’è anche chi, come Vanity Fair, inizia a suggerire le serie da vedere se ti è piaciuta la Regina degli Scacchi dopo aver affermato che “siamo tutti in lutto per la fine de La Regina degli Scacchi. Avremmo voluto altri mille episodi e ora ci sembra che non troveremo mai più una serie così. (Siamo tutti d’accordo che sia la serie più bella del 2020, vero?).”
17 novembre 2020 - 18:25
Dico la mia dopo aver letto gli interventi precedenti , spero con la giusta attenzione.
Personalmente mai mi permetterei di dire a qualcuno che non la pensa come me “non capisci niente, quella cosa fa schifo / è un capolavoro”. Io detesto i funghi, non mi piace il loro sapore; ma visto che c’è chi paga una fortuna per un tartufo, ha sicuramente ragione lui.
Detto ciò, sono state accostate serie TV che non ci azzeccano niente tra loro; le serie tipo Friends o Beautiful o Suits hanno come obiettivo quello di vendere pubblictà negli intervalli e di durare nel tempo. La narrazione è volutamente fatta a spezzoni. La sceneggiatura è volutamente scritta in modo che chi si perde uno o più episodi può però facilmente continuare a seguire perchè nel fattempo non è successo praticamente nulla o perchè ogni episodio ha una storia che si apre e si chiude e non preclude le puntate successive; così si possono continuare a vendere gli spazi pubblicitari perchè il pubblico affezionato continua a seguire. Niente di simile per “La regina degli scacchi; 7 episodi, se ne perdi uno hai perso un pezzo importante della storia e non puoi recuperare. Non sono previsti spazi pubblicitari e quindi la narrazione è completamente diversa. Per garantire la continuità nel racconto non può non essere realizzata che dallo stesso regista; ogni episodio non ha un senso in se ma è un tassello di una storia.
Di solito giudico un film o una serie TV in assoluto, senza comparazioni. Mi ha emozionato? Si/no. Mi ha intrattenuto? Si/No. La fotografia mi è piaciuta? Si/no L’interpretazione degli attori? La ricostruzione storica? I costumi? Etc. Non ha senso dare un giudizio tipo “si, la serie mi è piaciuta ma Amarcord è meglio”. O “c’è più suspense nei film di Hitchcock”. ”
Ho letto varie recensioni alla serie, sia positive che negative. Il punto che più mi è piaciuto sta in una analisi credo fatta da un critico della CNN. In soldoni dice che la serie racconta di un universo parallelo dove essere intelligenti è affascinante, è figo (in contrapposizone direi con i tuttologi da social media dei giorni nostri, quelli cresciuti nella università della strada che se la prendono con i “professoroni”) e che le persone si comportano onorevolmente, rispettando le regole senza barare. Aggiungo io che negli scacchi, si vinca o si perda, non si può che prendersela con se stessi. Il gioco degli scacchi non ammette alibi e questo, lo dico da padre di un giovane scacchista, è un fantastico strumento di crescita.
18 novembre 2020 - 11:11
Qui si continua a fare confusione tra il piacere personale e la valutazione critica dell’opera. Sono due cose molto diverse. Un film può piacere, intrattenere, divertire, anche se è un brutto film, insignificante, tecnicamente e formalmente orrido. I cinepanettoni hanno solitamente molto successo, intrattengono, divertono, piacciono a molte persone; ma qualcuno qui dentro ha il coraggio di sostenere che sono dei bei film, significativi, profondi, formalmente ineccepibili e originali?
Io stesso mi sono sempre divertito moltissimo con la trilogia di ritorno al futuro, in tutta la mia vita l’ho vista per intero almeno venti volte, anche per motivi sentimentali, e sicuramente la rivedrò ancora e sicuramente mi divertirò ancora. Ma ciò nonostante non posso considerare quei tre film dei capolavori, e nemmeno delle vere e proprie opere d’arte, quanto piuttosto delle spettacolari opere di intrattenimento. Sono divertenti, non illuminanti. “Otto e mezzo”, per me, e per tutti quelli che lo amano, non è solo divertimento e intrattenimento, ma è una vera e propria esperienza spirituale. Chi ama “Ritorno al futuro” si diverte e basta, dopo che la trilogia è finita non ha imparato niente di nuovo sul uomo, sul mondo, sulla vita.
Diceva Max Ernst: “L’arte non ha niente a che fare con il gusto, l’arte non sta lì per essere gustata”.
L’arte è un mezzo di conoscenza, spesso più potente di qualsiasi altro, della scienza, della filosofia, della religione.
17 novembre 2020 - 19:11
La recensione di Vanity Fair mi sembra esagerata ma considerato il target della rivista ci sta..
Ce ne sono tante sullo stesso livello e molte di livello superiore.
“The Crown” per esempio mi sembra molto ben fatta, sicuramente più ambiziosa e più impegnativa ma proprio per questo non alla “portata” di tutti.
Bisogna fare distinzione tra le serie più viste e quelle che hanno recensioni migliori, spesso non coincidono.
“La regina degli scacchi” ha avuto buone recensioni però e comunque è una serie carina e ben confezionata, fruibile a tutti; forse questo è il motivo per cui sta riscuotendo grande successo.
Restando in tema, se dovessi consigliare una serie in assoluto, quella che veramente mi ha stregato, direi “Peaky Blunders”: a mio modesto giudizio è un capolavoro del genere, perfetta sotto tutti i punti di vista.
18 novembre 2020 - 08:14
“peaky BLINDERS” non “blunders”. Ma “blunder” è la svista: lapsus freudiano? 😀
18 novembre 2020 - 07:22
Dico la mia, che è una via di mezzo tra le varie opinioni espresse. Non è sicuramente un capolavoro, è godibile ma imho non rimarrà nella storia delle serie tv. Ha comunque il merito di essere riuscita a mettere gli scacchi al centro della storia, senza far passare il gioco:
a) da “sfigati nerd”
b) da intelligentoni avulsi dalla realtà
c) con la casa nera in basso o altre mostruosità
18 novembre 2020 - 09:18
@ lordste: “Peaky blinders” certo.
Pensavo si fosse capito comunque, purtroppo quando mandi un post non lo puoi correggere.
Meno male ci sei tu.
Comunque “blunder” potrebbe essere un lapsus freudiano visto il torneo dell’altra sera 🙂
Su questo forse hai ragione.
18 novembre 2020 - 10:07
ahaha certo, l’ho fatto notare solo per l’errore “curioso” 😀
19 novembre 2020 - 23:20
Sfinito dopo la lettura di tutti i commenti (ci ho messo due giorni), dico la mia.
Non si deve dimenticare che film e serie televisive sono prodotti commerciali, che dovrebbero riuscire a recuperare l’investimento, quindi i fratelli Vanzina che producono cinepanettoni non sono artisti ma sanno fare il loro mestiere.
Inversamente i registi che producono film in perdita visti da uno sparuto gruppo di cinefili saranno anche artisti, ma non sanno fare il loro mestiere.
La mia ammirazione va a quelli capaci di fare entrambe le cose, successo di pubblico e successo di critica, il tutto facendo quadrare i conti.
Inutile fare esempi, li conosciamo tutti.
Per le serie televisive valgono le stesse considerazioni.
Ho seguito le più note serie televisive di buon livello (Soprano, Breaking Bad, Mad man, ecc.), ma non sono un fanatico della qualità, ogni tanto vedo anche serie di puro intrattenimento.
Per esempio ultimamente ho visto “Hollywood”, una stupidaggine ben confezionata, ma divertente.
Fatte queste premesse “La regina degli scacchi” non mi è piaciuta.
Dopo le prime due o tre puntate intendevo smettere, poi mi sono fatto forza per finirla per seguire le discussioni in corso, e tutto sommato le ultime puntate sono un po’ meglio.
Non la condanno del tutto, per esempio arredi e costumi mi sono piaciuti.
Apro una parentesi su Mosca fine anni ’60 dove si svolge l’ultimo episodio.
Ci sono stato nel 1968 ed è stata una esperienza indimenticabile; tutto era diverso dall’Italia, avevo l’impressione di essere sul set di un film di fantascienza, di essere su un altro pianeta.
Sono stato ancora a Mosca nel 1982, ma era già cambiato molto, la differenza con l’occidente era minore; c’erano già indizi della decadenza dell’URSS, ero ancora nell’albergo Rossija, nuovo scintillante nel ’68, trascurato con le moquette macchiate nel ’82.
In “La regina degli scacchi” ho rivisto la Mosca ’68, in questo sono stati bravi.
Quel che mi è piaciuto meno e la parte più propriamente scacchistica.
L’ascesa della protagonista è ovviamente inverosimile.
Non si diventa maestri giocando solo con un giocatore di club, senza praticamente studiare e vincendo sempre.
Ma lo ammetto anche, sapendo che per gli americani l’eroe deve vincere sempre.
Quel che non ammetto sono tante piccole sciatterie, errori evitabili che non aggiungono niente alla spettacolarità del racconto.
D’accordo la scacchiera è orientata giusta, meglio di niente, ma non basta.
La cosa peggiore è che Beth a 18 anni gioca le sue partite fresca come una rosa con lo stesso coinvolgimento che potrei avere io a 75 anni; non si vede felicità per la vittoria, frustrazione per la sconfitta, tensione e nervosismo prima dell’inizio della partita, la fatica necessaria per mantenere la concentrazione durante l’intera partita.
In sintesi gli scacchi sono molto di più di quel che la serie fa vedere.
20 novembre 2020 - 00:31
Porti una esperienza di prima mano, a Mosca nel 1968, esattamente l’anno in cui ci va Beth Harmon (!!), che conferma la sensazione di una ambientazione d’epoca ben fatta, ovviamente in particolare per quanto riguarda gli scacchi, tra partite alla radio e intere giornate di scacchi all’aperto.
Quando intervistai Romanishin ci raccontò di come avesse seguito alla radio, in compagnia del padre (anche lui un buon giocatore), le partite del match Borvinnik – Petrosjan del 1963. Collegamenti ogni ora per l’aggiornamento delle mosse. Tra un aggiornamento e l’altro analisi su analisi con il padre!
Tanti altri spunti interessanti, perché non ci mandi anche tu una recensione?
20 novembre 2020 - 09:17
Un film è prima di tutto arte e solo in seconda battuta un prodotto commerciale. Il mestiere dell’artista è quello di creare dell’arte, non di fare soldi con il commercio dell’arte. A questo ci devono pensare altre figure professionali, a cominciare dal produttore. Quindi, paradossalmente è il contrario: Tarkovskij sapeva fare il suo mestiere, i Vanzina no, perché ne fanno un altro pur spacciandosi per registi, cioè per artisti; ma siccome tutto fanno tranne che arte, tutto sono tranne che registi di film, cioè artisti. Inoltre, tieni presente che i film visti da uno sparuto gruppetto di cinefili, solitamente costano quattro soldi, e intascandone cinque comprono le spese e ci guadagnano pure. Anche qui si verifica quasi sempre l’opposto di quel che dici: la maggior parte dei film che non riescono a rientrare nel budget sono i film molto costosi e rivolti all’intrattenimento, appunto perché quei budget colossali rappresentano un rischio elevato. E ripeto nuovamente che fare un film come il dio dell’arte comanda non significa necessariamente fare un film per pochissimi cinefili: tutto il cinema classico americano dimostra che si possono fare grandi film che, oltre ad essere opere d’arte, sono anche film d’intrattenimento (basta pensare a Hitchcock!). Oggi lo dimostrano, per esempio, Woody Allen, P.T. Anderson, Tarantino, Scorsese, Eastwood (fino ad American Sniper escluso), Tim Burton, Spike Lee, i fratelli Coen, Iñárritu, e altri ancora. Il problema di questa serie è semplicemente che, A MIO PARERE, è fatta male dal punto di vista cinematografico e narrativo, a prescindere che le intenzioni fossero di creare un’opera d’arte (cioè di fare del vero cinema) o di confezionare un appetitoso prodotto commerciale.
20 novembre 2020 - 11:16
“Un film è prima di tutto arte e solo in seconda battuta un prodotto commerciale”: hai dimenticato ti aggiungere : “a mio modesto parere”.
IMHO
20 novembre 2020 - 13:05
No, in questo caso è obiettivamente così, il cinema è prima di tutto arte. Lo è proprio per definizione, ed è conosciuta come la Settima Arte da più di un secolo. È arte a tutti gli effetti almeno dai tempi di D.W. Griffith. Il vero motore e il vero cuore del cinema come arte sono le idee, non i soldi e il successo di massa, e ciò è dimostrato da due cose: a) grandi opere d’arte possono essere creare anche con pochi spiccioli; b) pure i fabbricatori di prodotti di puro intrattenimento, ai quali mancano le idee, rubano a man bassa le idee degli artisti veri, anche di quelli più di nicchia, mentre nessuno ruba alcunché ai meri intrattenitori.
Alcuni dicono che il cinema è un’industria, ma non è così. Il cinema è un’arte che viene veicolata da un apparato industriale, proprio come il romanzo non è un’industria, ma è un’arte veicolata dall’industria editoriale.
La mia valutazione critica della serie di Scott Frank, invece, è un parere personale di un appassionato che, pur non essendo un professionista, non si limita a guardare il cinema ma lo studia, proprio come alcuni, o forse tutti, qui dentro fanno con gli scacchi, pur non essendo – credo tutti – dei professionisti o dei grandi esperti.
20 novembre 2020 - 14:05
Sul fatto che il cinema sia arte non si può discutere, altrimenti ritorniamo all’a b c.
Purtroppo spesso arte e successo sono antitetici, hanno prospettive diverse; l’arte guarda al futuro, il successo all’immediato.
20 novembre 2020 - 15:18
vabbe ma allora torniamo al punto: “cinema” non è come “serie Netflix”…
20 novembre 2020 - 16:57
Ma infatti, una mini serie tv non può essere paragonabile ad un film.
E’ semplicemente una forma di intrattenimento mutuata dal cinema.
20 novembre 2020 - 16:30
E perché non lo sarebbe? Anzitutto, ci sono delle serie distribuite da Netflix di gran lunga superiori a questa, per esempio Black Mirror o House of Cards. Non è che tutto Netflix si riduce a “La regina degli sacchi”. E’ questa serie che, A MIO PARERE, è particolarmente mediocre.
Parlando in termini generali, ho già elencato alcuni dei principali fattori che impediscono alle serie tv di raggiungere la qualità dei migliori film, e sono fattori inerenti la produzione, scelte deliberate per sfornare velocemente quante più serie è possibile e che siano allo stesso tempo prodotti di massa, al solo scopo di fare bei soldoni. Immaginiamo la situazione inversa, poniamo che Netflix, dall’oggi al domani, cambiasse radicalmente politica e decidesse di dare spazio a grandi artisti e dare loro mano libera per creare vere opere d’arte. Nulla impedirebbe, in questo caso, che possano venir prodotte serie tv di un livello qualitativo pari ai migliori film di Coppola o di Scorsese. Naturalmente, però, il ritmo di produzione sarebbe molto inferiore, il numero delle serie distribuite anche, e probabilmente pure il numero complessivo di spettatori (anche se non sarebbe mai esiguo, come non è esiguo quello degli spettatori del cinema di Coppola e Scorsese). Però si farebbe dell’arte vera, con tutte le ovvie ripercussioni positive sulla società e, starei per dire, sull’umanità tutta.
E infine: le serie Netflix sono comunque arte, in termini generali, lo sono in quanto cinema. Però alcune serie, come, A MIO PARERE, questa di Scott Frank, sono arte mediocre, altre serie sono nettamente migliori, come le due sopracitate. Ma, per le ragioni già dette, i migliori film raggiungono vette non ancora raggiunte (fuorché, A MIO PARERE, dalla terza stagione di Twin Peaks).
20 novembre 2020 - 16:32
(…) non ancora raggiunte (…) dalle serie tv.
20 novembre 2020 - 16:39
A mio parere lo scopo del cinema è piacere a un pubblico vasto, solo in seconda battuta può essere un prodotto artistico rivolto a un pubblico ristretto.